mercoledì 17 luglio 2019

In questi anni sto partecipando attivamente e assistendo allo sviluppo di una nuova scienza, che insospettabilmente è nutrita nei luoghi in cui la "vecchia scienza" tecnocratica ha visto la sua massima espressione.
Con questa attenzione particolare molto ricettiva, l'altra mattina ho colto un'immagine fulminea.

Siamo oggi giunti a questo parossismo: la capacità di accedere alla conoscenza è diventata inversamente proporzionale alla capacità di raccogliere dati oggettivi.
Cioè: abbiamo valicato una soglia oltre la quale alla espansione della capacità di raccogliere dati corrisponde una contrazione proporzionale della conoscenza che otteniamo.
L'accumulo di informazione zavorra la comprensione e ostacola l'accesso alla sorgente dei fenomeni, come quando hai una casa così piena zeppa di cose che non riesci più a muoverti.

Non si tratta però di una questione di potenza di calcolo apparentemente insufficiente: questo era il tema del 20° secolo, oggi non lo è più.
L'illusione di poter carpire ogni dettaglio del reale ha messo la tecnologia in una rincorsa senza fine, con un risultato univoco: ad ogni passo le cose si frammentano, si contorcono nella complessità, il miraggio si allontana e la scienza di fatto retrocede.

Non è un caso che anche nell'ambito della fisica i ricercatori non sappiano più che pesci pigliare: la realtà sarebbe forse la simulazione di un computer; o forse l'universo è pura coscienza che genera se stessa. Fonte: tre nuovi approcci scientifici per i quali la realtà non esiste.

Oggi più ti focalizzi sui dati oggettivi, meno comprendi la realtà.

È tempo di una nuova "seconda navigazione" platonica.


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